E’ giunta l’ora di iniziare un percordo celebrativo per festeggiare i 50 anni della Metropolitana di Milano. Mancano ormai pochi mesi al 1° novembre, quando la rossa compirà il suo primo mezzo secolo di vita, ancora in forma assolutamente smagliante. Un festeggiamente che sembra interessare pochi affezionati, nonostante la nostra rossa cittadina sia frequentata da centinaia di migliaia di persone ogni giorno e praticamente abbia conosciuto tutti i suoi concittadini, ma questo è un dicorso che verrà affrontato più avanti.
Nel 1958 partono i lavori nel primo lotto, che vedono l’impiego di 900 operai, i quali già nel maggio del 1959 riescono a consegnare al rustico la prima tratta affidatagli. E’ tuttavia impossibile dare un’idea di quanto imponente fosse quest’opera per la città di Milano senza illustrare prima il metodo costruttivo delle gallerie, che impose lo stravolgimento della viabilità superficiale.
La larghezza della galleria è di 7,5 metri con altezza libera pari a 3,9 metri, in modo da far transitare due vetture dalla larghezza di 2,85 metri. I tunnel hanno la copertura a non meno di 3 metri dalla superficie e il piano dei binari a non meno di 8 metri. La procedura adottata per la costruzione è una derivazione del sistema “cut&cover” londinese, usato già nel 1863 per la costruzione delle prima metropolitana, ma con una differenza sostanziale, tanto da prendere il nome di “metodo Milano”. Tale metodo prevede prima la costruzione dei piedritti, poi lo scavo del terreno fino al punto di appoggio della copertura e il getto della stessa. Successivamente viene ripristinata la viabilità di superficie e si procede, in sotterraneo, alla scavo e alla costruzione dell’arco rovescio. Per la costruzione dei piedritti sono stati adottati due metodi differenti, il primo consiste nello scavare due trincee parallele armate con paratie metalliche, il secondo invece prevede l’uso dei fanghi betonici, in questo caso la parete è composta o da pali in cemento armato strettamente affiancati e alternati, o da una parete continua, sistema questo, davvero innovativo per l’epoca. Si procede scavando due piccole trincee di 1,5 m. di profondità ed un metro di larghezza, poi rivestito con mattoni per creare una “guida” per lo scavo completo; poi la speciale scavatrice con benna mordente effettua lo scavo che è costantemente riempito con una soluzione di bentonite in acqua, capace di non far cedere le pareti dello scavo, poi viene immersa l’armatura metallica e infine viene gettato il cemento che depositandosi sul basso spinge via i fanghi. Tale procedimento venne chiamato ICOS vista la collaborazione con l’omonima Società.
Durante la fase di costruzione, che era relativamente veloce, emerse in pieno quanto il metodo adottato fosse impegnativo per il traffico di superficie e anche per i più elementari spostamenti pedonali, così fin da subito, per i lotti in centro città, si accelerò la velocità esecutiva istituendo tre turni di lavoro a coprire l’intero arco delle 24 ore. Nonostante questa soluzione portasse con se il problema del disturbo sonoro durante la notte. Tuttavia questa decisione ebbe i suoi vantaggi, tanto che per il settimo lotto, ovvero via Dante e piazza Cordusio i lavori durarono appena 350 giorni.
Particolarmente impegnativa si prospettava la tratta di via Boccaccio, dove le pareti del tunnel sarebbero dovute passare a meno di un metro dalle fondamenta delle case, tuttavia tramite l’uso del sistema ICOS (fanghi betonici), la realizzazione non diede particolari problemi, fatto salvo per un edificio in via Gioberti già danneggiato durante i bombardamenti, che fu doverosamente puntellato. Comunque, onde evitare qualsiasi crollo, MM provvide a monitorare tutti gli edifici costantemente. Un altro punto problematico fu il Palazzo della Ragione in via Mercanti, edificio di epoca medioevale, reso ancora più instabile dal grande carico dovuto alla presenza al suo interno dell’archivio notarile, per questo motivo fu necessario incatenare le volte ed armarle con robuste centinature di legno, poi si provvide a rinforzare le fondazioni con paletti gettati in opera in fori trivellati a raggiera detti “pali radice”. Inoltre il Broletto così come molti altri edifici a portici nel centro furono poderosamente centinati con travi in legno.
Anche per le stazioni, a partire da Cordusio, si decise di gettare prima il solaio e poi, dopo aver ripristinato la viabilità superficiale, costruire il solaio del mezzanino e il piano banchina.
Ma l’uso del “metodo Milano”, per quanto innovativo, non era certo immune dal portare incredibili disagi a Milano; le linee tranviarie e filoviarie, che allora erano molto più diffuse di oggi, erano state spostate; in vari punti come il Cordusio, San Babila o via Senato erano stati costruiti ponti metallici di tipo militare “Bailey” per passare sui cantieri, oppure il ponte pedonale ad arco sempre in Piazza San Babila, vagamente somigliante ai ponti veneziani. Anche l’economia locale ne soffrì, infatti gli scavi interessarono aree commerciali come Corso Vittorio Emanuele, Via Dante, Corso Buenos Aires e non solo, e molti negozi ebbero gravi perdite tanto che alcuni arrivarono a chiudere. Dai giornali dell’epoca: “… Strade occupate da cantieri, voragini aperte dalle scavatrici, grosse betoniere in funzione, ciclopiche opere in cemento armato, e la viabilità rivoluzionata, si che gli stessi cittadini faticano a districarsi.[…] per i lavori della MM e per le esigenze della Fiera, possono avvenire dei mutamenti nei sensi unici, da un giorno all’altro.[…] Entro la fine dell’anno, il terremoto viario sarà terminato e le strade verrano tutte restituite alla circolazione di superficie. …” (Domenica del Corriere 16 aprile 1961). Oppure “Ogni giorno una novità. I lavori continuano, mai sufficientemente veloci per chi segue passo passo l’avanzare delle paratie e dei piedritti, le gettate di calcestruzzo e di cemento armato, in modo impressionante invece per chi, come noi, va a dare una capatina ogni tanto” (Città di Milano).
Non è da trascurare nemmeno il numero di reperti archeologici riemersi durante gli scavi, dato la loro superficialità; a dirigere i lavori di recupero fu il Sovrintendente per i Beni Artistici e Storici professor Mirabella Roberti, che individuò sia una tratto di basolato romano in ottime condizione in via Mercanti sia le fondazioni dell’antica cattedrale di Santa Tecla e del prospiciente battistero di San Giovanni, risalenti al IV secolo d.C., a tutt’oggi visitabili sia dal Duomo sia nella relativa stazione. Anche nell’area dinnanzi alla chiesa di San Carlo, in corso Vittorio Emanuele, furono fatti importanti ritrovamenti, anche in quel caso si decise di esporli all’interno di un sottopassaggio costruito insieme alla metropolitana ma da essa indipendente. Tale sottopassaggio fu poi chiuso e le scale di accesso demolite, finendo così per essere dimenticato.
© 2014 Minici Giovanni Luca – www.metroricerche.it, si acconsente l’uso di questo articolo citandone l’autore.
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